Che il cinema filippino rappresenti oggi uno dei bacini di affluenza di maggior portata e freschezza per il corso turbolento del cinema mondiale degli ultimissimi anni, lo si era già edotto da figure come quella (oramai imponente) di Lav Diaz, ma anche da quelle meno chiacchierate (ma non per questo meno sfavillanti) di autori come Brillante Mendoza, di Jet Leyco e, per l’appunto, di Raya Martin. Quest’ultimo in particolare, giovane regista dall’indole geniale ed iconoclasta, si è distinto fin dal suo primo lavoro [A short film about the Indio Nacional, 2005, per il quale vale la pena di aprire una parentesi nozionistica, estrapolata da un’intervista, che la dice lunga sulla freschezza e sulla contingente destabilizzazione artistica instillata nel giovane artista: – Poi è arrivato il momento della tesi e ho girato Indio Nacional, ma solo 30 minuti, perché non poteva essere più lungo. Ho girato ugualmente un lungometraggio e ho dato a loro solo i 30 minuti che servivano per la tesi. – È per questo che si intitola A Short Film About the Indio Nacional anche se è un lungometraggio? – No, è solo che mi piaceva il titolo.], Martin si è distinto fin dal suo primo lavoro, si diceva, per il medesimo spiccato senso di responsabilità e responsabilizzazione storico-politica nei confronti del proprio paese osservato anche nei lavori dei colleghi sopra citati, abbinato tuttavia inusualmente ad un approccio caleidoscopico e trasformista nei confronti del cinema e dei suoi mezzi. Tutto questo fa di Martin una sorta di cataclisma registico dalle fattezze quasi batteriche ed al contempo simbiotiche (per inciso, simbiotiche, non parassitarie) nei confronti del leitmotiv predominante del cinema filippino, l’autoconsapevolezza dell’identità storica ed umana della propria nazione. Martin si dimostra vero sperimentatore, prima che in senso prettamente tecnico-stilistico all’interno delle proprie pellicole (termine, questo pellicole, non ascrivibile unicamente al suo utilizzo sineddochico, bensì alla reale sostanza della transizione tra analogico e digitale presente nella sua produzione audiovisiva), anche nel suo approccio globale alla generazione artistica in quanto tale. Ognuna delle sue creazioni presenta, infatti, una differenza stilistica sostanziale con ciascuna delle precedenti, e si passa dallo stile quasi diaziano di A short film about the Indio Nacional (2005), alla stasi resistente di Autohystoria (2007), all’evoluzione del mezzo cinema e del proprio supporto di Now Showing (2008), al recupero delle tecniche hollywoodiane dei primi del Novecento di Independencia (2009), allo sperimentalismo cromatico e militante di Buenas Noches, España (2011), fino al cataclisma apocalittico de La Ultima Pelicula (2013, summa artistica del filippino e, secondo la parzialissima opinione di chi scrive, uno dei migliori film del 21esimo secolo). Ma di cosa (non) parla Autohystoria? Della Storia, appunto. Delle Filippine, dei filippini. Della rivoluzione. Autohystoria contiene (per quanto in apparenza di difficile individuazione ed estrapolazione) tutti i semi della (r)esistenza artistica di Martin nella sua concezione primordiale e totalizzante. Il film si apre con un piano sequenza di più di 30 minuti, sgranatissimo, su un personaggio apparentemente senza nome intento a camminare incessabilmente tra le strade filippine. Solo dopo una quarantina di minuti, una sovrimpressione recita: – La notte scorsa ho letto qualcosa a proposito di Andrés Bonifacio. Venne assassinato assieme a Procopio Bonifacio. Ho scritto a mio fratello chiedendogli come stesse: nessuna risposta. Poco dopo, ho preso sonno. – L’autohystoria di Martin è dunque un atto di riscrittura e di eternizzazione che si volge (e, pretendendo, si dona) alla rilettura rivoluzionaria e calamitante della tragica sorte cui furono relegati Andrés e Procopio Bonifacio, eroi della resistenza filippina di fine Ottocento, assassinati dal generale Aguinaldo. Soggetto affine a quello disegnato (e, auspicabilmente, prossimamente approfondito) da Lav Diaz nel suo Prologue to the Great Desaparecido (2013), sebbene Martin decida di percorrere dei binari completamente diversi da quelli tracciati dal compatriota (si fa per dire, dal momento che l’opera di Martin è temporalmente antecedente a quella di Diaz). Quando Diaz si vota alla ri-costruzione della vicenda degli eroi nazionali, Martin imbastisce una sua re-vitalizzazione, sospesa tra l’onirismo (“Poco dopo, ho preso sonno”) ed il dominio della corporalità e del presente, in cui è la dimensione del tempo che cannibalizza la visione e ri-scrive la Storia, servendosi direttamente linguaggio costitutivo di quest’ultima (per l’appunto, quello temporale, che si cristallizza nell’a-temporalità). L’ostilità stilistica dell’intero lungometraggio lo rende di fatto uno dei meno accomodanti dell’autore, ma al tempo stesso uno dei più densi e significativi (mai come in questo film significante e significato sono l’uno lo specchio dell’altro): il film è resistenza, sviluppata sui differenti livelli dei personaggi, dell’artista, dello spettatore. L’in(de)finito peregrinare dello sconosciuto in maglietta bianca corporalizza il tempo che intercorre tra la rivoluzione e l’oggi, e la mdp non può che essere lo strumento di testimonianza, il supporto digitale che misura l’estensione spazio-temporale (del tutto analogica) tra l’esecuzione dei Bonifacio e la contemplazione del monumento a questi dedicato, posta sapientemente in posizione baricentrica nel lungometraggio del filippino. Il monumento assume infatti un significato gravitazionale all’interno della auto-hystoria martiniana, coincidente con il centro di rotazione intorno al quale si dipanano, infinitamente uguali a sé stessi, gli autoveicoli in circol-azione (sia quelli racchiudenti le incarnazioni dei Bonifacio, sia quelli del tutto ignari di ciò che li circonda, di ciò in cui sono inseriti e, loro malgrado, di cui sono testimoni). Una circolazione eternizzante che si estende, quindi, agli eventi, alla politica, al (non) percepirsi come cittadini di una (di questa) nazione ed al valore di un atto rivoluzionari. I due sconosciuti di Raya Martin rivivono la Storia, o meglio, è la Storia che rivive attraverso i due sconosciuti. Perchè nessuno più dei filippini sa che la Storia non è destinata che a seguire i passi di sé stessa. E, per questo, il film non può che ultimarsi sulle immagini (reali) dell’esercito di Aguinaldo ad inizio Novecento, chiudendo l’Ouroboros che sospende gli eventi nella loro dimensione prediletta, quella dell’eternità. Autohystoria è dunque un atto di rovesciamento (somatizzato dagli stessi titoli di coda, presentati capovolti), di personalizzazione, di epifania nei confronti della Storia, sublimato nel combaciamento della fine e dell’inizio; ma con gli occhi a quello che sta nel mezzo, il nostro atto di resistenza.



