Si spegne lo schermo.
Starring
KYLE MacLACHLAN
È concluso.
Il flusso straripante partorito dalla ribollente mente di David Lynch ha il suo compimento, e col cavolo che sia qualcosa che abbia la vaga forma di un punto fermo. Le 18 ore che hanno appena azzerato il modo di concepire la serialità televisiva finiscono, ma un mondo è stato scoperchiato. Di fatto niente è finito, se non il girato; tutto il resto è mutevole, cangiante ed ancora in procinto di assumere una forma, in attesa che l’uomo possa dare un nome a ciò che il suo demiurgo gli ha appena donato.
Ma era già successo, o mi sbaglio?
Del resto, “Is it the future or is it the past?”
Parte 0: Il silenzio
No, non saranno condotte esegesi riguardo alla trama ed al finale di Twin Peaks – The Return. Non ce ne sarà nemmeno l’ombra. Vogliamo lasciare il silenzio dove il silenzio deve essere lasciato, la contemplazione e l’interpretazione nella loro sacra fioritura, dopo la semina di un contadino che sa quello che fa, e soprattutto sa quello che non fa. Plachiamo la sete compulsiva e cerchiamo fonti che ancora non sappiamo esistere, qualcuno le conosce e vuole spingerci a scoprirle.
Lo scopo di questa riflessione non è solutivo, quanto piuttosto retrospettivo sulla portata colossale e disintegrante di un’operazione audiovisiva senza precedenti.
E dunque trattandosi di un’analisi intrinsecamente a posteriori, sì, ci saranno spoiler.
Parte 1: L’abbandono
10 giugno 1991. Titoli di coda sulle prime due stagioni di Twin Peaks. Un finale apertissimo e la rinascita della televisione. Lynch & Frost, seppur con le briglie tirate dalla produzione, spaccano la storia della produzione su piccolo schermo, plasmando un’iconografia leggendaria ed inconfondibile. L’agente Cooper e le sue bizzarre caratteristiche, la dimensione onirica ed ultracriptica ma votata al mistero e alla soluzione di un omicidio, la sacralizzazione del micromondo-Twin Peaks, l’esegesi affiancata all’enigmatica mutevolezza delle conifere e della quotidianità. Tutto questo ha contribuito a creare un immaginario intoccabile e venerato, giunto inoppugnabile ed invocato fino al 21 maggio 2017.
Twin Peaks – The Return stravolge senza pietà (e con scaltra e trascendente consapevolezza) qualsiasi caratteristica che avesse contribuito a generare la fortissima e carismatica iconografia delle prime due stagioni. E noi, al primo episodio, abbiamo già avuto la laconica conferma che qualsiasi cosa noi abbiamo atteso per 25 anni, possiamo riporla in un angolo. Nulla è noto, tutto è divenire. Come già detto: “Is it the future or is it the past?”
Non potevano essere passati 25 anni solo per dare ascolto a Laura e alla sua profetica sentenza. Lynch crea dal nulla, per abbandonare sulla carreggiata lo spettatore romantico che già si era accomodato in una rinfrancante aspettativa di revival parossistico e del tutto estraneo al percorso del Lynch regista ed artista. Così è stato, e la rivoluzione ha assunto le sembianze della riscoperta del già noto con una potenza evocativa e ricostituente riconducibile alla sequenza dell’orecchio di Blue Velvet (1986). Di fatto Twin Peaks – The Return dà luogo ad un processo di iconoclastia diametralmente opposto a quello iconografico che aveva caratterizzato le prime due stagioni.
Quello che ne risulta è una serie il cui leggendario protagonista è completamente fuori gioco per più dell’80% del girato, costretto in una condizione neonatale e di ricostruzione (che caso, eh?) che lascia orfani e disorientati. Una serie in cui l’incanto, la suggestione e la seduzione della location di Twin Peaks viene scardinata fin dai primi secondi, con la presenza di sviluppi paralleli, e spesso ben più articolati, a New York, a Las Vegas, in South Dakota e persino a Buenos Aires. Una serie in cui ogni singolo personaggio presente nelle prime due stagioni viene radicalmente destrutturato e decostruito, andando ad assumere una valenza più metafisica – nell’ottica totalizzante dell’installazione artistica Twin Peaks – che terrena: lo sceriffo Truman che non è lo sceriffo Truman, il dottor Jacobi, Bobby, Audrey, la stessa Evoluzione del Braccio dal nome che è un manifesto programmatico. Figure che appaiono senza preavviso, per lanciare una bomba, sentirla esplodere e vedere fiori nascere dal suo cratere.
Parte 2: La contemplazione
Il processo di smantellamento e decostruzione da parte di David Lynch non si estingue alla dimensione dei propri personaggi, ma trova il suo completamento e la sua definitiva dignità concettuale con lo scardinamento basilare del concetto stesso di spettatorialità. Anche oltre la quarta parete si è costretti a cambiare, per poter continuare a veleggiare sulla lunghezza d’onda di un prodotto audiovisivo appartenente ad una serialità che non si era mai vista. Che Twin Peaks – The Return sarebbe stato stilisticamente più affine all’ultimo Lynch di Mulholland Drive (2001) e, soprattutto, di Inland Empire (2006) lo si poteva sospettare, ma mai ci si sarebbe attesi un concept-installazione di 18 ore che stravolge la tempistica seriale per avvicinarsi più al concetto di fondo dell’art-house filmmaking. Ed il tutto clamorosamente in prima serata nelle più importanti emittenti televisive del globo.
Lynch adotta un registro del tutto contemplativo, immergendo con la forza l’osservatore in una dimensione spettatoriale ignota ai più, scomoda, provante e fondamentalmente sospesa: quella della banalità. Il trascorrere del tempo è quasi carnale, il silenzio è reale ed insostenibile, il dimenticabile ha più tempo a disposizione dei fugaci e taciuti tasselli necessari alla (ri)costruzione della vicenda principale. Lynch si intromette nella vita americana, soprattutto in quella non degna di nota; o meglio, degna di nota in quanto del tutto dimenticabile. Ciò che l’artista produce è un centripeto e risucchiante moto verso l’abbandono spettatoriale. Termine – abbandono – da non intendersi allo stesso modo di quello esposto nel paragrafo precedente, bensì come coinvolgimento contemplativo e privo della pretenziosità avida e bulimica tipica della serialità televisiva, atteggiamento finalmente responsabile e consapevole della totalità del reale.
Ci troveremo quindi alla Roadhouse, o Bang Bang Bar, ad assistere a minuti casuali di persone casuali in un non-luogo sperso nel nord-ovest. Perché la storia non è solo la vicenda, e lo spettatore deve risorgere dalle ceneri del suo ruolo tanto quanto Cooper deve raggiungere la sua propria, nuova, consapevolezza partendo solo da uno sbiadito stralcio di sé stesso. In più, notoriamente la musica ha sempre assunto un’importanza più che fondamentale nel percorso artistico e cinematografico di Lynch, che per inciso è a sua volta musicista. I cammei conclusivi sul palco della Roadhouse sono un tassello ulteriore alla destabilizzazione dello spettatore nel suo – fino a questo momento – inattaccabile e sovrano scanno, in cui il prodotto televisivo è suo subordinato: Twin peaks – The Return plasma l’osservatore prendendolo a suo metamorfico servizio.
Parte 3: L’esplosione
Ma la resettante e riformattante detonazione doveva ancora arrivare. Ed arriva con quello che è (e rimarrà ancora per parecchio tempo) il punto più alto della storia della televisione, per la sua portata concettuale ricostituente associata ad un formalismo devastante per il piccolo schermo: l’Episodio 8.
Se mai è esistito un canone regolatore dei prodotti audiovisivi partoriti dall’ambiente televisione (in realtà è pressoché certo che un canone non esistesse in partenza ma si sia andato a formare sottomettendosi alla sovrana – e limitata/limitante – necessità e superficialità spettatoriale), Lynch lo fa deflagrare in un clamoroso fungo atomico. L’episodio 8 è quanto di più anti-televisivo si sia mai visto, fortificato ancor più dal contesto scardinante della sua apparizione.
Lo spettatore medio si trova – in prima serata – di fronte ad un’ora di cinematografia simbolica, estetica, ermetica e totalmente avulsa dal concetto di subordinazione nella sua fruizione da parte di chi siede dall’altro lato dello schermo. È espressione di una libertà autoriale (finalmente) senza confini, è affermazione di auto-significazione artistica di un prodotto cinematografico che ha senso di esistere in quanto tale, prima del contributo passivo della terza parte spettatoriale. Quello che Lynch covava da 25 anni, da quando il suo primo figlio televisivo (le prime due stagioni di Twin Peaks, appunto) si vedeva cannibalizzato e sfigurato da una produzione che non aveva capito nulla di ciò che Twin Peaks è.
L’Episodio 8, spartiacque primigenio della (possibile, ma ancora del tutto improbabile) nuova televisione, si inserisce nel contesto di Twin Peaks – The Return come raffigurazione strabordante dell’origine di quel Male nebuloso e totalizzante che è stato protagonista (parzialmente incompreso) di tutta l’esperienza Twin Peaks fin dal suo concepimento. Male che non ha bisogno di contestualizzazione né di commento esplicativo. Commento che è infatti totalmente assente tanto nell’episodio quanto nell’intera serie, in quanto protagonista è l’innata forza naturale di cui è intriso il mondo, come soffocato dalle scorie dell’esplosione atomica che è culmine concettuale dell’episodio e che diventa manifesto dell’intento Lynchiano a tutto tondo.
Nell’Episodio 8 non ha meno importanza anche una componente meta-artistica incarnata nell’atto della proiezione, e conseguente sospensione, di cui il demiurgico Fireman è protagonista, così come nella modellazione sferica del globo lucente da parte del misterioso (ed ancestralmente fecondo) personaggio femminile. Abbiamo assistito alla morte della televisione ed alla catarsi artistica: da qui non si può che ripartire.
Parte 4: L’ellisse
Ma ripartire per dove? “Nell’oscurità di un futuro passato, il mago desidera vedere”.
Un futuro passato. È proprio così, siamo solo su un binario parallelo. Lentamente, i due fuochi si incominciano a vedere, e la produzione artistica Lynchiana si avvolge ellissoidalmente fino alla sua cortocircuitazione e sublimazione. Come nella figura tanto cara al regista, quella del nastro di Moebius, in cui tutto è continuità eppure mutamento, grazie ad una torsione che sconfina nell’impossibile, così anche in questa circostanza futuro e passato sono complementari, stadi evolutivi necessari l’uno per l’altro seppur non coincidenti. Il tempo viene rimodellato, coinvolgendo l’Opera Lynchiana dal particolare all’universale.
Ellittico è, infatti, Twin Peaks – The Return stesso. Cooper viene costretto nello stato catatonico e riformattato di Dougie Jones dopo due ore e mezza dall’inizio della serie e ne riemerge a due ore e mezza dal termine. Ma, più in generale, ellittica è l’intera installazione di Twin Peaks, intesa come prodotto tele-cinematografico e comprendente – con un ruolo, più che fondamentale, assolutamente fondante – dei 25 anni intercorsi tra le prime due stagioni e la terza. Imprescindibile è infatti la concezione del ritorno (non a caso parte del titolo della stagione), che però non avviene ruotando sul medesimo perno centripeto e dando luogo ad una sovrapposizione ideologicamente sbagliata, bensì avvolgendosi su un fuoco distinto della medesima ellisse.
I personaggi ritornano ad essere sé stessi senza esserne macchiette, bensì con un valore nuovo assegnato loro dal tempo e dal binomio perfettamente imperfetto tra passato e futuro. Futuro che, inevitabilmente, contempla anche la morte stessa, presenza a posteriori ingombrante e ossimoricamente viva nella serie. Il compianto David Bowie (Philip Jeffries) mutato in enigmatica teiera. Gli scomparsi in corso d’opera Miguel Ferrer (Albert Rosenfield) e Catherine E. Coulson (la Signora Ceppo) – straziante e insostenibilmente reale la sua ultima telefonata a Hawk ed il suo congedo dalla vita terrena, straripante sublimazione dell’attualità concettuale e conclusiva dell’arte Lynchiana che perfora e divelle le pareti sceniche per avvolgere il reale stesso. L’ormai da poco dipartito Harry Dean Stanton (Carl Rodd) ed anche il mai dimenticato Jack Nance, estensione fisica del creato di Lynch fin dal primissimo Eraserhead (1977) e romanticamente omaggiato nel finale dell’Episodio 17.
Eraserhead. Ebbene sì, dobbiamo tornare indietro di 40 anni per chiudere, finalmente, anche l’ultima, colossale e paziente ellisse. Quella che completa ed eleva l’essenza stessa di David Lynch come artista: l’immacolata concezione dell’impensabile. Così come il primo, eclatante, lungometraggio del regista, anche Twin Peaks – The Return nasce fondamentalmente senza madre nel panorama audiovisivo precedente, concepito senza il minimo referente cinematografico e destinato a produrre solo imitazioni che non potranno mai cogliere l’essenza libera e ricostituente dei due capolavori Lynchiani. Sogno, realtà, fuga e sospensione si inviluppano chimicamente generando deflagrazioni irripetibili nella storia del cinema. Irripetibili, e per questo rivisitabili unicamente dal loro creatore, che ricongiunge i lembi e completa tanto Eraserhead quanto Twin Peaks proprio grazie alla loro interdipendenza concettuale. E Lynch non può che saperlo, naturalmente, ripercorrendo – seppur su un bordo differente del nastro di Moebius – l’iconografia del suo primo figlio cinematografico: l’ascensore (notare anche il motivo del pavimento), il quadro dell’esplosione atomica, il demiurgo criptico che osserva i protagonisti dall’esterno (Man in the planet/Fireman), l’incomprensibile (la creatura/l’Evoluzione del Braccio, dalle fattezze confrontabili).
Parte 5: Il sogno
Certo è che di Eraserhead non si poteva non osservare anche l’impianto narrativo fortemente (anzi, totalmente) onirico e destabilizzante. D’altra parte nell’intero corso della produzione filmica di Lynch, l’etereo ed il tangibile sono colti a rincorrersi e sfuggirsi, negandosi a vicenda ed in un certo qual modo essendo l’uno la ragion d’essere dell’altro. Dicotomia necessaria e strutturale per la poetica Lynchiana, che può condensarsi nell’essenziale forma onnicomprensiva pronunciata da Monica Bellucci nell’Episodio 14: “We are like the dreamer who dreams, and then lives inside the dream. But who is the dreamer?”
Già, chi è il sognatore? Chi è “il mago [che] desidera vedere”? L’importanza dell’anti-passività emerge roboante da questo manifesto artistico, suggerendo che vita e sogno non sono che binari dell’es(i)s(t)enza umana regolati da un parallelismo non euclideo in cui, infinitamente lontano, lo spazio collassa e tutto comprende. Possiamo sognare noi. Può sognare Gordon; e sognare a sua volta Philip Jeffries con il suo stesso sogno. Può sognare, chissà, forse Laura in persona, fino al tragico e desolante risveglio finale. Ed il punto è proprio qui, nel risveglio.
Risveglio traumatico ed azzerante come quello di Audrey, al termine (o al culmine?) della sua ipnotica danza al Roadhouse – anche qui: ipnotizzante o frutto di ipnosi? Qualcuno sta sognando, e forse è proprio nella sua illogicità il senso stesso del sogno. L’assenza di sfondo, la straniante ed asettica dimensione della realtà (?) mettono drasticamente fine alla musica e lasciano orfani di fronte all’ignoto. Un lieto fine probabilmente non esiste, come del resto ancor più probabilmente non esiste una fine. Certo è che Lynch ha imbastito un artificio, un prodotto della mente umana, che trascende reale ed immaginario, e noi ne abbiamo fatto parte, intravedendo l’invisibile.
Parte 6: Il pozzo
Gli occhi sono stati aperti, probabilmente. Questa è la realtà, insondabile fino al suo nucleo. L’immersione è consapevole ormai, sapendo che fuori sta il candido e dietro questo, il vero volto delle cose. Strumento di autocoscienza che rimarrà probabilmente un unicum nell’ambito dell’arte visiva, Twin Peaks – The Return fornisce i mezzi per guardare tanto davanti a sé (the future) quanto dietro di sé (the past), a partire dal mondo della serialità televisiva fino ad arrivare alla dimensione del reale/irreale.
“This is the water. And this is the well. Drink full and descend. The horse is the white of the eyes and dark within.”