Funeralopolis – A suburban portrait (Alessandro Redaelli, 2017)

Che l’immagine cinematografica rappresenti costitutivamente un’alterità sostanziale rispetto al suo stesso atto di concepimento e, soprattutto, rispetto alle persone che ne propongono a tutti gli effetti l’esistenza e la materializzazione (termine abusato e sicuramente fuori luogo, perché sull’ontologia e sulla materialità dell’immagine si potrebbe aprire un discorso ahimè ben più stimolante di quello che ci costringe in questa sede a rivolgerci a una persona, più che a un’immagine, e già con questo chiedo di capire perché io abbia aperto queste righe accostando i concetti di immagine e della sua materializzazione, e dunque di perdonare la grezzura – indotta – di questa affermazione), che l’immagine sia a tutti gli effetti altro dalla persona in carne ed ossa che la assembli, si diceva, questo era già chiaro, ché un’immagine che non vada oltre alle ristrettezze della singolarità e del particolare non è un’immagine, ma una pubblicità, uno spot che affonda le proprie ambizioni (e, senza dover utilizzare questo termine altezzoso, diciamo la propria condizione di possibilità) dieci metri sotto terra. Certo che, quando è esattamente questo quello di cui ci si trova a dover parlare, vien proprio da incazzarsi. Continua a leggere Funeralopolis – A suburban portrait (Alessandro Redaelli, 2017)

Questa non è una rivoluzione.

“Don’t forget the real business of war is buying and selling. The murdering and violence are self-policing, and can be entrusted to non-professionals. The mass nature of wartime death is useful in many ways. It serves as spectacle, as diversion from the real movements of the War. It provides raw material to be recorded into History, so that children may be taught History as sequences of violence, battle after battle, and be more prepared for the adult world. Best of all, mass death’s a stimolous to just ordinary folks, little fellows, to try ‘n’ grab a piece of that Pie while they’re still here to gobble it up. The true war is a celebration of markets.”

(Thomas Pynchon, Gravity’s Rainbow, 1973)

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Un carteggio (virtuale) con l’Emergere del Possibile

Qualche mese fa, tra Marzo e Aprile, ho avuto l’occcasione (ed il piacere) di incontrare e frequentare le persone che hanno eretto la realtà più fervida ed essenziale di quello che dovrebbe rappresentare oggi lo scrivere di Cinema e, soprattutto, il pensare il Cinema. L’Emergere del Possibile ha di fatto aperto, già da diverso tempo, un discorso a sé stante (non tanto per assunto isolazionismo, quanto piuttosto per la palese evidenza della più totale mancanza di qualcuno anche solo in grado di presenziare in un discorso tale) riguardo al Cinema e alla necessità dell’effettivo discuterne, volto ad una politica dell’immagine prima che ad una sua estetica; ed è solo questo che, oggi, giustifica il parlare di Cinema, il parlarne in quanto atto di resistenza in un contesto, a dirla tutta, putrescente, per quello che riguarda la generalizzata concezzione di Cinema odierna. Sta di fatto che da quegli incontri (di Cinema realmente vivo, forse; lo si legga alla luce anche dei temi di condivisione e contatto che troverete qui di seguito) è nata l’idea della chiacchierata che potete trovare in originale naturalmente sul blog dell’EdP, al seguente link – http://emergeredelpossibile.blogspot.com/2018/06/sacramenti-5-immagini-di-confine.html – e che ho riportato anche qui su Immagini di Confine, un po’ per comodità e un po’ per dar testimonianza di quanto l’EdP ed i suoi creatori mi siano cari a livello personale e siano stati il necessario svelamento per chiarirmi in nome di cosa oggi abbia ancora senso parlare di Cinema.

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Fuck Cinema (Wu Wenguang, 2005)

Probabilmente non c’è commento migliore di quello indicato dal titolo del suo stesso film al lavoro del cinese Wu Wenguang; o meglio, siccome una precisazione qui è d’obbligo, non tanto al lavoro di Wu Wenguang, bensì proprio a Wu Wenguang. Perché talvolta capita che dalle peggiori intenzioni sorga un’epifania svelatoria e basilare, per quanto concepita del tutto fuorchè volontariamente da qualcuno che sotterreresti volentieri per come aveva inteso in partenza ciò che – suo malgrado! – ha creato. Continua a leggere Fuck Cinema (Wu Wenguang, 2005)

Videograms of a revolution (Harun Farocki, Andrei Ujică, 1992)

Viene sempre da pensare a quanto inattaccabile sia solitamente una certa forma di schiavismo intellettuale che imperversa un po’ qua e un po’ là e che, tanto più si professa libera posizione, tanto più palesa la propria sottomissione inconsapevole ai dettami del luogo comune; prima di tutto, qui si parla di immagini e poi, secondariamente (ed è solo un corollario), di immagini del Cinema. Continua a leggere Videograms of a revolution (Harun Farocki, Andrei Ujică, 1992)

Phantom islands (Rouzbeh Rashidi, 2018)

L’ultimo, ammaliante lavoro di Rouzbeh Rashidi assume, paradossalmente, le fattezze di un’opera prima, di una metamorfosi creativa volta alla rifondazione ed alla profondità di un oggetto, l’immagine filmica, che dall’essere focalizzata, appunto, sull’immagine in quanto tale ed in quanto fondazione visivo-comunicativa del mezzo Cinema, passa all’essere mezzo di visione-comunicazione del fondamento del Cinema, vale a dire quella Natura che è ambientazione/contestualizzazione necessaria per il Cinema stesso, ergo per l’atto analogico di imprimere immagini (digitali, in questo caso) su di un mezzo di conservazione, divulgazione ed astrazione (il film).  Continua a leggere Phantom islands (Rouzbeh Rashidi, 2018)

Autohystoria (Raya Martin, 2007)

Che il cinema filippino rappresenti oggi uno dei bacini di affluenza di maggior portata e freschezza per il corso turbolento del cinema mondiale degli ultimissimi anni, lo si era già edotto da figure come quella (oramai imponente) di Lav Diaz, ma anche da quelle meno chiacchierate (ma non per questo meno sfavillanti) di autori come Brillante Mendoza, di Jet Leyco e, per l’appunto, di Raya Martin. Continua a leggere Autohystoria (Raya Martin, 2007)

Twin Peaks – The return (David Lynch, 2017)

Si spegne lo schermo.

Starring

KYLE MacLACHLAN

È concluso.

Il flusso straripante partorito dalla ribollente mente di David Lynch ha il suo compimento, e col cavolo che sia qualcosa che abbia la vaga forma di un punto fermo. Le 18 ore che hanno appena azzerato il modo di concepire la serialità televisiva finiscono, ma un mondo è stato scoperchiato. Di fatto niente è finito, se non il girato; tutto il resto è mutevole, cangiante ed ancora in procinto di assumere una forma, in attesa che l’uomo possa dare un nome a ciò che il suo demiurgo gli ha appena donato.

Ma era già successo, o mi sbaglio?

Del resto, “Is it the future or is it the past?

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The House (Šarūnas Bartas, 1997)

Madre. Madre, spesso avrei voluto parlare con te di tutto, ma non l’ho mai fatto. Ma dentro di me, io parlavo con te. Potevo sentirlo, e sentire le tue risposte. Ma ogni volta che vengo qui ad ascoltarti, non posso più parlare con te. Rimango in silenzio. Tutte le parole sono state dette. Dette internamente. E tutte le mie domande, tu hai risposto ad esse, dentro di me. Prima è sempre accaduto questo. Quando eravamo distanti. Distanti l’uno dall’altra. Ecco com’era prima. Come è stato, e mai più potrà accadere. Non importa quanto io lo voglia. Il futuro. Nel futuro io sono libero. Libero, perché ancora non esiste. Non comprendo il presente. Il presente è così sfuggente che non sono certo che esista. –

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