Funeralopolis – A suburban portrait (Alessandro Redaelli, 2017)

Che l’immagine cinematografica rappresenti costitutivamente un’alterità sostanziale rispetto al suo stesso atto di concepimento e, soprattutto, rispetto alle persone che ne propongono a tutti gli effetti l’esistenza e la materializzazione (termine abusato e sicuramente fuori luogo, perché sull’ontologia e sulla materialità dell’immagine si potrebbe aprire un discorso ahimè ben più stimolante di quello che ci costringe in questa sede a rivolgerci a una persona, più che a un’immagine, e già con questo chiedo di capire perché io abbia aperto queste righe accostando i concetti di immagine e della sua materializzazione, e dunque di perdonare la grezzura – indotta – di questa affermazione), che l’immagine sia a tutti gli effetti altro dalla persona in carne ed ossa che la assembli, si diceva, questo era già chiaro, ché un’immagine che non vada oltre alle ristrettezze della singolarità e del particolare non è un’immagine, ma una pubblicità, uno spot che affonda le proprie ambizioni (e, senza dover utilizzare questo termine altezzoso, diciamo la propria condizione di possibilità) dieci metri sotto terra. Certo che, quando è esattamente questo quello di cui ci si trova a dover parlare, vien proprio da incazzarsi. Perché, caro Redaelli, vorrei poter parlare bene di Funeralopolis – A suburban portrait, e sicuramente lo avrei fatto se non avessi alzato lo sguardo alla persona oltre l’immagine chiedendomi se, per quanto come abbiamo già detto l’immagine è altro rispetto al suo generatore, questi non possa contaminarne la purezza con la propria natura e, anzi, se tale immagine possa mai aver posseduto una sua purezza o se sia già nata drogata da un sovrapensiero latente che non avesse nell’immagine come possibilità il proprio obiettivo, bensì nell’immagine come veicolo. E non è che ci sia qualche differenza. C’è tutta la differenza. Perché in un caso l’immagine è centrifuga, ontologicamente protesa verso la soglia del possibile, nell’altro è centripeticamente bastardizzata in una terrenità che ne cambia radicalmente le implicazioni. Attenzione, perchè qui non stiamo parlando di cosa l’immagine di fatto contenga: Funeralopolis è di fatto un film necessario proprio per la sua sostanza costituita di corpi, di presenze, di reale, di materiale, un reale talmente sostanziale che giustifica la propria realtà proprio nel fatto che non possa esistere altro campo di battaglia verso il reale se non il reale stesso. Le figure di Vash, Felce e compari sono necessarie perché sono già di per sé, e contengono i germi della distruzione così come la fugacità friabile della pura possibilità, una possibilità che sfida il reale proprio perché insudiciata dai propri paradigmi. Di fatto, la posizione del film (ripeto, del film) di Redaelli è l’unica posizione possibile per osservare e rendere al reale ed al terreno la sua stessa decostruzione, facendone così qualcosa di sospeso verso il confine. Ma è qui che si deve prestare davvero attenzione, perché se l’immagine di Funeralopolis – A suburban portrait deve costituirsi di materiale, di terreno, di immondo per essere danzante sul dirupo della possibilità, essa proprio in quanto pura possibilità non deve essere la terrenità che, invece, deve contenere. Ovverosia: se la condizione ontologica di possibilità del reale è l’immagine cinematografica, come può esserlo se l’ontologia di tale immagine è il materiale? Ed è qui che mi sento di dover tirare in causa la persona di Redaelli, ché in questo caso non è proprio possibile scollegarla dal discorso sull’immagine che saremmo tenuti a condurre in questa sede. Proprio in questi giorni è in atto, con tanto di post sponsorizzati su FB, la campagna di promozione e raccolta fondi (…) su Kickstarter per la commercializzazione del film, per la sua produzione in copia fisica (edizione speciale super esclusiva, scusate…) e conseguente fatturazione. Perché alla fine è sempre qui che si vuole arrivare. Ecco, questa è una cosa che, trovandomi nella posizione in cui sono (ed in cui voglio essere, sia chiaro) non può proprio essere scollegata dal resto, e anzi giustifica lo spendere parole sul film e sul desolante paradigma generale di Cinema in cui ci si trova di questi tempi, molto di più che l’immagine isolata film del caso, su cui usualmente, sempre nel contesto del paradigma succitato, si limita lo scrivere di Cinema. Ora, Redaelli, come recepire l’immagine incendiaria e ribollente di Funeralopolis alla luce della sua, probabilmente aspirata fin dal principio, commercializzazione? E non ci si chiede questo perché “che schifo i soldi” e idiozie del genere, ma più che altro perché si è tenuti a problematizzare la sincerità di una problematizzazione, come quella che poteva (doveva…) rappresentare Funeralopolis. Ormai è una costante, quella della vendita e del ricavo di un utile, che scavalca la problematizzazione in sé e per sé, che non vuole aspirare ad una politica dell’immagine ma che è banalizzata nei confini della funzionalità. Non si sta parlando solo di denaro, ma anche di esaltazioni intellettualoidi di riconoscimento artistico (la partecipazione ai festival, lo status di regista in un contesto superficiale di Cinema come quello che si avverte ora, o quantomeno che avvertiamo noi) ed in esasperazioni sconcertanti e raccapriccianti come quella, clamorosa, di mettere in vendita, nel più esclusivo dei box DVD esclusivi sul già menzionato Kickstarter, la telecamera (LA. TELECAMERA.) con cui è stato girato Funeralopolis. Che è, Redaelli? Metti in vendita le tue sante reliquie per i tuoi devoti? O, e non so cosa sia peggio, dai pubblica dimostrazione di quanto l’immagine sia mercificata, frutto e generazione di una vendita spudorata che affossa e insozza, ed e a questo che ci si riferiva in precedenza, la condizione ontologica del Cinema? E’ dunque significativo parlare di un film prescindendo dalle sue connotazioni nei confronti di una politica del Cinema? Dal canto mio, la questione è antecedente: è significativo generare un’immagine, specie se tanto urgente in potenza, sapendo che finirà per essere quotata in borsa e per circoscrivere a tale contesto la propria “ontologia”? Ma del resto, nel Cinema partono tutti bene, e poi…

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24 pensieri su “Funeralopolis – A suburban portrait (Alessandro Redaelli, 2017)”

  1. Posso chiederti come hai visto il film? Immagino tu sia andato al cinema Beltrade a Milano. O a La Compagnia a Firenze, o al Classico a Torino. Hai preso il biglietto all’ingresso? Ti sei indignato quando ti hanno chiesto dei soldi in cambio? Ah, i soldi, che volgarità.
    È sicuramente affascinante quell’immaginario che vede il film come oggetto underground, passato di mano in mano in VHS, valido e necessario solo perché accessibile a pochi, attraente solo perché frutto di sofferenze e avvolto da una mitologia fatta di artisti maledetti e morti di fame.
    Ma se hai la volontà godere unicamente di un cinema che sfugge alle logiche del capitalismo dovrai limitarti a guardare due film all’anno – e passare metà della tua vita a indagare sugli autori per assicurarti che non si siano mai abbassati a chiedere dei soldi in cambio del loro lavoro – o per finanziare il lavoro di qualcun altro (i dvd non “compaiono” dal nulla sugli scaffali del Mediaworld del tuo quartiere).
    Il cinema indipendente italiano arranca e boccheggia anche per colpa dell’atteggiamento di persone come te, che si rifiutano di accettare il cinema come arte popolare e vogliono invece possederlo, con la fantasia di concedergli di esistere secondo i loro termini. Non mi sembra un atteggiamento sano, né sensato, né ragionevole.
    Buona domenica!

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    1. Carissimo, ti farà piacere sapere che in effetti il film non l’ho visto al cinema e, di conseguenza, non ho pagato alcun biglietto. Perché se qualcuno (io, in questo caso) scrive evidenziando ciò che è stato evidenziato è perché probabilmente qualche cosina in più e qualche background lo conosce, per esempio il fatto che tempo addietro gli stessi autori fossero molto più disponibili alla condivisione non lucrosa. Tornando comunque alla critica che mi muovi, credo che tu abbia capito assai poco di quale sia il fulcro della questione: non vivo fuori dal mondo, che il denaro debba in qualche modo girare, anche solo per camparci, è palese, non sono mica uno scemo idealista che fa la battaglia al sistema come quei pecoroni che commentano indignati ogni notizia su internet, ma che scherziamo? Qui non si tratta di parlare di ritorno economico o meno, si tratta soltanto di parlare di coerenza. Intanto, non sono io che vedo questo film come “oggetto underground”, per usare le tue parole, ma è il film stresso che si pone in questi termini, fin dal titolo, fin dal soggetto di cui il film si compone. Ripeto, è di coerenza qui che si parla, non d’altro. Vuoi fare un film sull’underground, sulla resistenza, sull’evidenza dei limiti, delle indifferenze, delle periferie deliberatamente ignorate di una società sfilacciata come quella che appare nel film? Benissimo, ma poi non venderti anche l’anima per tirar su ogni soldo possibile, perché a tutti gli effetti così facendo non sei che un oliatissimo ingranaggio di tutto quello che nel film stai criticando. Dipende tutto dalle intenzioni: io stesso guardo molti film pensati per far parte di un meccanismo di compravendita, e mi sta benissimo, perché lo dichiarano fin dall’inizio, mica ci mettiamo a far la battaglia ai mulini a vento. Semplicemente di quei film non parlerò. Qui in Immagini di confine, se hai inteso il punto di vista che costituisce questo blog, non si vuole parlare di film belli o film brutti, si vuole parlare di film che si costruiscano su una politica dell’immagine, che è poi l’unica cosa che mi interessa. Con questo dico che non metto al rogo tutti i film che non nascono con una dimensione politica (termine da leggersi in accezione filosofica, evidentemente), semplicemente non saranno film che possono significare qualcosa in questi termini. Ma quando qualcuno fa qualcosa che vuole avere una dimensione politica e poi ribalta tutto quanto, quella è una cosa su cui vale la pena spenderci due parole. Il mondo dei film continuerà sempre a vivere sul denaro, evidentemente (anche se, a differenza di quanto pensi, fortunatamente esiste ancora più di qualcuno che mantiene una sua coerenza con gli obiettivi del suo fare cinema: perché si può fare qualcosa di urgente e straordinario anche senza doverci investire capitali su capitali, e quindi senza dover fare del cinema la propria fonte di sostentamento: ed in questo ti rimando a The act of seeing with one’s own eyes di Brakhage: la politica dell’immagine viene prima della sua estetica). Comunque, in questo blog di quello che finisce o non finisce sugli scaffali di Mediaworld non ce ne frega proprio niente. Ma se vogliamo continuare a parlare sempre delle stesse cose, fate pure, non su questo blog. Magari qui si scriverà di “due film all’anno”, ma almeno si sarà parlato di qualcosa che ha un motivo per cui esistere.

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  2. Se il film non l’hai visto al cinema, l’hai visto con un watermark nel quale la parola “review”, o “recensione”, etc. doveva forse suggerirti che non si trattava di libera condivisione a titolo definitivo. Se invece non c’era nessun watermark significa molto probabilmente che il film l’hai ottenuto in maniera illecita.
    L’espressione “tirar su ogni soldo possibile” mi fa pensare che tu a non abbia capito che il cinema, oltre che essere un mezzo di espressione, è anche un mestiere. Come tale, deve essere un mezzo di sostentamento. Non perché chi lo fa è un avido bastardo, ma perché purtroppo un sistema di cassieri dell’Esselunga che finito il turno lavora con purezza di spirito al proprio lungometraggio, per poi distribuirlo con wetransfer ad amici di amici, non è sostenibile.
    L’assunto per cui un film che parla di situazioni marginali perda di fatto ogni valore nel momento in cui viene presentato come prodotto professionale mi sembra particolarmente cretino. Svilisce gli sforzi di chi l’ha realizzato e rende virtualmente impossibile l’esistenza di un “Cinema” inteso come movimento collettivo di artisti – i quali sarebbero condannati a investire a perdere per realizzare un film “puro nelle intenzioni”, far contento te, e poi abbandonare il mestiere per recuperare il denaro con lavori in cui è accettabile chiedere un compenso.
    Scrivi: “si vuole parlare di film che si costruiscano su una politica dell’immagine, che è poi l’unica cosa che mi interessa”, ma l’immagine, al cinema, è quella che sta dentro i limiti dell’inquadratura. Quella di cui parli tu è una specie di politica della vita degli autori, che sinceramente mi sembra assomigli più al gossip che alla critica.

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    1. Quello che evidentemente non capisci (o non vuoi capire) è il fatto che per me fare cinema vuol dire prendere le cose più banali, le cose più vicine, quelle che ti vedi sempre intorno, quelle prese senza scrittura, senza sovrapensieri di varia sorta, e renderle qualcosa di motivato, qualcosa che giustifichi (un’intenzione, una sensazione, un gesto di resistenza) la produzione di immagini. Come ho già detto in più di una sede, chiunque oggi può produrre un immagine, CHIUNQUE. La discriminante a questo punto non è la bellezza o la bruttezza dell’immagine, la sceneggiatura, nè cosa si mostra, ma il MOTIVO per cui si mostrano quelle immagini, il motivo per cui tutto quello è stato messo insieme. Se il motivo è: “Questo è il mio MESTIERE, devo camparci”, allora IO (I-O!) perdo interesse, per gli scopi che con questo blog mi sono prefissato. Punto. E’ proprio l’idea di trarre sostentamento fisico dalla produzione di immagini che non condivido: mi stai dunque cercando di dire che la politica dell’immagine è slegata da quella degli autori, davvero? Ad ogni modo, non ti interessa il mio punto di vista? Più che lecito, torna a leggerti gli articoli sull’ennesimo film uguale al precedente, con le stellettine di giudizio alla fine.

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      1. Non si produce un film di valore per camparci. Ma ci si deve campare per poterne produrre altri di eguale o maggior valore. Altrimenti il cinema diventa un hobby governato dalla casualità.
        Comunque: la politica degli autori riguarda la messa in scena e la continuità di essa all’interno dell’intera produzione dei singoli registi. Non la loro vita privata. Quindi, sinceramente, non capisco di cosa parli.

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      2. Clipson faceva il portinaio. Non guadagnava nulla dai suoi film, non investiva nulla (in denaro) nel film successivo. Eppure mangiava in testa a pressoché chiunque, proprio perché le sue immagini sorgevano dal nulla e dicevano più di ogni altro prodotto di budget. QUESTO è per me qualcosa di interessante nel mondo odierno del cinema: prendere il nulla e farlo diventare tutto, solo grazie ad un’intenzione. Che, ripeto, è l’unica cosa che fa differenza.

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  3. TI posso dire che è sinceramente la cosa più esilarante e inconcludente che ho letto recentemente? Bravo, sul serio. C’è del talento nell’atto di scrivere nulla attraverso l’uso di mille caratteri, chapeau.

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    1. Carissimo, ti ringrazio e, anzi, sono io a levarmi il cappello di fronte alla tua elaborata risposta. Rispondere dicendo nient’altro che “esilarante e inconcludente”, credo che questo sia il nulla di cui parli. Potevi spiegarmi perché la distribuzione del film avesse preso questa piega, ero qui pronto ad ascoltare le tue ragioni dal momento che, se quelle che ho supposto sono non corrette, credo mi sfuggano. Questo blog si prefissa di parlare di intenzioni, di atteggiamenti, di motivazioni dietro all’immagine, perché l’immagine di per sé stessa è sempre uguale: di possibili commenti ce n’erano tanti (ed anzi, erano auspicabili). Spiace che tu non abbia messo insieme nemmeno un punto di vista per replicare al mio, di punto di vista, che peraltro non vuole pretendersi esclusivo ma essere semplicemente l’espressione di una concezione (personale, ed invito chiunque a farsi il suo blog e ad esporre come la pensa, aspetto di leggervi) riguardo al cinema. Ma tant’è, immagino che il tipo di risposta sia proporzionato al tipo di interlocutore.

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      1. Non prenderla sul personale, suvvia. Trovo sinceramente divertente l’analisi da te esposta, ed essendo il blog pubblico mi è venuto spontaneo esternare la mia ilarità, tutto qui.
        Mi sembra oltretutto bizzarro che io debba venir qui a spiegarti come funziona la produzione di un film, dato che ti dichiari fin dal manifesto del blog uno che ha capito molto, molto di più degli altri rispetto all’analisi cinematografica.
        Se senti la necessità di avere risposte concrete la questione è molto semplice e te l’ha spiegata molto chiaramente Ulrich (pur esponendola da un punto di vista molto più ampio).
        Qui, banalmente, volevamo produrre un’edizione home video per poter vedere il film all’infuori della sala. Come ben sai produrre un’edizione DVD o BD ha un costo, si parla di una media di 4000€ soltanto per fare il master (ovvero il primo disco, in entrambi i supporti), a cui vanno aggiunti i pezzi singoli dei dischi, tutto il resto del materiale e le spedizioni. Secondo i nostri calcoli con diecimila euro riusciamo a produrre i contenuti con la massima qualità possibile standoci dentro a pelo con i costi. Di conseguenza l’utile che ci entra dalla campagna è praticamente zero, come quello che ci è entrato da tutti gli altri canali.
        Se fossi milionario sarei ben contento di regalare il film a tutti producendo un’edizione home video da me, dato che a malapena riesco a mangiare non vedo come avrei potuto fare altrimenti, senza incorrere all’orrendo metodo dello streaming, che uccide l’immagine da ogni punto di vista.
        Dunque, a fronte del fatto che con questo film non ci ho guadagnato nulla e nulla ci guadagnerò con la campagna, il tuo ragionamento mi sembra quantomeno forzato e pretestuoso.
        Tuttavia, se anche volessi rientrare delle spese che mi hanno portato a dedicare due anni della mia vita ad un film, anni in cui ho pagato oltretutto a malapena l’affitto per riuscire a starci dietro (perché no, facendo il portinaio non sarei riuscito a girare Funeralopolis), non vedo dove sia il problema. Secondo il tuo ragionamento chi racconta del proletariato deve regalare i film al popolo mentre chi racconta dell’alta borghesia deve far pagare un DVD trecento euro. Te lo dico con enorme franchezza: o ciò che ne esce è questa roba qui o l’analisi non è affatto chiara. O magari sono scemo io, mi lascio il beneficio del dubbio.
        Detto questo, non ho fatto il film per una qualche vocazione spirituale che mi ha portato a voler salvare il cinema nelle intenzioni, sia mai, il cinema faccia il suo corso. Ho fatto questo film perché volevo raccontare una storia attraverso l’unico mezzo che conosco e con cui sono ingrado di esprimermi; mezzo attraverso cui mi piacerebbe mangiare, per continuare a proporne degli altri. 🙂

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      2. Non credo ci stiamo capendo, soprattutto sulla parte del proletariato e dei borghesi – non è mai stata detta una cosa simile, ci si domanda solo se si voglia fare film e quindi per farli bisogna raccimolare qualcosina oppure se si vuole raccimolare qualcosina e quindi si decida di far film. Abbiamo una concezione diversa di cinema, e la tua sicuramente va per la maggiore, lo dico con serenità: se tu riprendessi quello che accade fuori dalla tua finestra investendoci zero euro ma dandomi una valida ragione e mostrandomi un’intenzione non banale per cui l’hai fatto e per cui quell’immagine ha senso di esistere, sarebbe una cosa che apprezzerei più di mille film strutturati, in cui bisogna “raccontare una storia” ed investirci denaro. E’ alla luce di questo che dico che il cinema si può fare anche senza volerci portare a casa lo stipendio, però dipende da che prospettive si decide di avere. La mia sarebbe quella di fare cinema per averlo fatto, per l’intenzione e l’azione politica, ed infatti io sono qui a scrivere in questo blog uscito dal lavoro (che riguarda tutt’altro, ma decisamente TUTT’ALTRO) e non intendendoci fare un centesimo. Tu hai la tua idea, e mi sta bene che tu l’abbia: essendo però un esempio di ciò che personalmente (ripeto: personalmente, d’altra parte siamo sul mio blog, ché altrimenti farei il reporter e non il blogger) ritengo all’opposizione della mia filosofia, mi esprimo al riguardo orientando il discorso nella direzione che questo blog si è prefissato di avere. Tu continua a far quel che ritieni giusto, mica mi metto a boicottare nulla, perdio non sto messo mica così. Tanto a me che i DVD ci siano o non ci siano non cambia nulla.

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  4. Mah, io sapevo il proiezionista, ma poco importa. Anche se fosse vero quello che dici, mi sembra un esempio molto specifico su cui basare una definizione di Cinema. Se invece stai cercando di definire un genere, liberissimo di farlo. C’è a chi piace solo il western, chi guarda solo commedie romantiche, mentre tu ti dedichi al cinema no-profit.
    Basta che tieni a mente che ti stai affidando unicamente alle tue speculazioni sulle intenzioni del filmmaker (che magari non ha voluto soldi, ma il film l’ha fatto per scopare, che ne sai. Non è che tutte le motivazioni che non riguardano le finanze sono pure e virtuose).
    Altra considerazione: le tanto disdegnate partecipazioni ai festival, con tanto di allori e loghi sul trailer, le interviste, gli articoli, le cazzo di stellette alla fine delle recensioni, possono anche essere il male della società, ma sono anche il modo principale con cui è possibile diffondere un’opera. Anzi! Neanche: il modo con cui è possibile diffondere la conoscenza dell’esistenza di un’opera. [Non credo che tu di Funeralopolis abbia sentito il titolo bisbigliato nel vento in un sogno di primavera. Credo anzi che ne abbia sentito parlare grazie alla sua partecipazione al Biografilm, o perché qualche altro blog o rivista ne ha scritto.]
    Le opere cinematografiche sono rivolte a un pubblico. Sia il grande pubblico, sia un pubblico di nicchia, sia un pubblico di due persone, poco importa. Da qualche parte devono venire fuori. La loro diffusione e la loro viabilità commerciale non hanno nulla a che vedere con il contenuto. Te lo giuro. [Se un film fa cacare, o è disonesto, o è pedante, o poco ispirato, VAI TRANQUILLO che me ne accorgo a prescindere dal budget o da quanti soldi ha il regista sul conto corrente]
    Altrimenti, a seguire i tuoi vari ragionamenti, esce fuori un’idea di cinema che mi spaventa. I film andrebbero fatti senza soldi e senza guadagni, non dovrebbero ricevere riconoscimenti, l’artista deve aspettare la morte per poter ottenere un riconoscimento, con l’intima consapevolezza che quella volta che gli hanno fatto un complimento e lui ha sorriso, quella volta che gli hanno offerto un lavoro pagato grazie a un suo film e lui ha accettato, in quel momento ha negato completamente il valore virtuoso della sua opera.
    Questa idea di regista kantiano che si muove per imperativi morali mi sembra molto poco realistica e poco utile – se parliamo di tutto il cinema.
    Se invece parliamo del cinema che piace a te, sticazzi! Sei ovviamente libero di goderti quel che ti pare.

    Però posso dirti una cosa con estrema sincerità? Io non credo che questa sia veramente la tua filosofia. Mi puzza tanto di atteggiamento. Perché continui a parlare di “immagini” e “intenzioni” e del mestiere di Clipson, di “nulla” e di “tutto”, ma alla fine il cinema te lo guardi su uno schermo come tutti gli altri. E i film parlano sullo schermo. I registi parlano attraverso i film. Tutto il resto è agiografia. Curiosità, pettegolezzi.
    Penso sia un atteggiamento perché altrimenti non parleresti di David Lynch (la televisione?? AH!) o di Lav Diaz (Venezia, Cannes, Berlino?? Uno schiavo degli allori!).
    Detto questo, ti lascio al tuo cinema.

    Ah ricordati sempre che se ti mandano uno screener di un film non vuol dire che lo stanno regalando in giro. Di solito ti specificano anche che si tratta di una copia privata. Ricordatelo perché altrimenti frasi come: “probabilmente qualche cosina in più e qualche background lo conosc[o], per esempio il fatto che tempo addietro gli stessi autori fossero molto più disponibili alla condivisione non lucrosa” potrebbero darti grossi problemi. Oltre ad essere esilaranti.
    BELLA!

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    1. Stai tranquillo amico, puoi dire quello che vuoi tanto quanto me. E, ebbene sì, non sto cercando di convertire il mondo a fare cinema come lo intendo io, solo spero mi sia concessa la libertà di esprimere la mia opinione sul mio blog riguardo ai miei gusti e alle mie idee di ciò che c’è di interessante nel mondo del cinema oggi. Tradotto: sì, voglio parlare del cinema “che piace a me”, ovvero quello che sposa (o che si oppone, come in questo caso) le mie idee. Per quanto riguarda l’atteggiarsi, solitamente è una cosa che condanno persino nei film finto-sperimentali che vogliono vendersi a sperimentali, quindi: non ti piace il mio blog, il mondo è vasto e ormai chiunque scrive qualcosa sul cinema, nessuno ti incatena qui. Puoi anche pensare che sia io quello che si atteggia, benissimo: peccato che il Diaz che dici tu, su cui ho scritto, non sia il Diaz di oggi (ché, onestamente, oggi lui campa di festival, e quindi rimango coerente con me stesso). Per Lynch, invece, spero tu abbia notato che sta in una sezione del blog in cui deliberatamente si tratta di altro, in cui le premesse non sono più quelle del cinema per il cinema. Perché, l’ho detto fin dall’inizio ma evidentemente si vuol far tutto tranne che sentire, non metto al rogo tutto il cinema che non sia duro e puro secondo i miei parametri di interesse. Basta solo saperlo dall’inizio: si sta parlando di intrattenimento? Benissimo, solo uno sciocco userebbe gli stessi parametri di incanalamento del discorso che si utilizza quando le premesse vorrebbero (forse) essere altre. Comunque per gli screener, vai tranquillo che so come funzionano. Ciao campione.

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      1. Ognuno ha il diritto alle proprie opinioni, quando non sono espresse in maniera talebana o non hanno la pretesa di travestirsi da definizioni. Comunque… a ognuno il suo.

        (Campione, campione, ma intanto pensavi che lo screener fosse “condivisione non lucrosa”, quindi non so se sai come funzionano… per quello ti ho segnalato che a volte trattarli con leggerezza può creare fraintendimenti e situazioni problematiche.)

        Buon proseguimento con il tuo blog. Discussione stimolante. Adios.

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      2. Esatto, se ho preso una posizione forte é perché in quello che sostengo ci credo, ma non era mia intenzione prendere una posizione assolutista e di superiorità, in questo fai bene a domandare: pur essendo sul mio blog, lungi da me il sentirsi le verità in tasca. Difendo una convinzione, e tu la tua, ed in questo credo che la discussione sia stata interessante. Ciao e grazie per il confronto.

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  5. Vabbè, chiaramente non ci capiamo. Solo una cosa voglio capire, ma giusto per regolarmi io sul modo di pormi in futuro: cosa ti ha fatto intendere che Funeralopolis fosse partito dalle premesse che difendi a spada tratta?
    Non mi riferisco al fatto che sia un film realizzato per macinar denaro, cosa falsa altrimenti mi sarei dedicato chiaramente ad altro, ma al fatto che tradisce le sue intenzioni.
    E’ stato mai sponsorizzato come il cinema nudo e crudo che distrugge le regole stesse del cinema e dell’industria? Dalla prima condivisione pubblica abbiamo sempre annunciato, con assoluta onestà intellettuale, che il film sarebbe stato visionabile soltanto attraverso i canali tradizionali: cinema e home video. Quelle poche volte che qualcuno ha osato chiedermi di mettere il film su youtube, o su qualche piattaforma gratuita mi sono sempre incazzato come una bestia. E sai perché? Perché è una richiesta pericolosa, dannosa per il cinema, dannosa per la cultura, dannosa per tutto l’ecosistema legato alla comunicazione.
    Chiaramente non viaggiamo sulla stessa lunghezza d’onda, dato che al “Lav Diaz che dici tu” gli si vuole bene tutti, ma sul fronte del linguaggio cinematografico non vale un dito di uno Scorsese, quello di ieri e quello di oggi, che rappresenta in parte tutto ciò che a quanto pare odi. E va bene, poco m’importa, ognuno ha le sue idee e, per quanto dannose, è giusto che vengano espresse nonostante esista una scala di oggettività per valutare un’opera. Pero, ripeto, fammi capire dove ho sbagliato nel modo di pormi in modo da cercare – per quanto possibile – di non incrociare mai più persone che la pensano come te.
    Metto le mani avanti riguardo all’ultima affermazione: non che non mi piaccia il confronto, anzi, ma di perdere tempo ho poca voglia, e quando si viaggia su strade troppo distanti l’unico risultato è quello di annoiarsi a morte combattendo reciprocamente contro i mulini a vento.
    A meno che il risultato non scaturisca in una bella scazzottata, per quello sono sempre disponibile, ci si diverte e si impara sempre qualcosa di nuovo.

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    1. Hai ragione, probabilmente le aspettative non derivavano da voi, sono io che vedendo l’argomento bello, urgente, importante del film (che, di per sé, mi é piaciuto) mi sarei aspettato una motivazione personale probabilmente diversa. Ciò che ho scritto a riguardo nasce da questa convinzione, da quello che quel film poteva rappresentare. Su Diaz e Scorsese si parla di gusti e visione, a te interessa il linguaggio cinematografico e probabilmente hai ragione, solo che del linguaggio e della tecnica, sempre per i miei gusti e le mie idee, non me ne faccio niente di niente. Questione di interessi. Però mi spiace, non so proprio come aiutarti sul “non incrociare mai più persone che la pensano come me”: sperare che questo avvenga é dannoso per la cultura, credo. Semmai puoi ignorare chi la pensa diversamente da te, quello é facile. E non richiede scazzottata alcuna, perché qui c’è spazio solo per le parole, ed in questo apprezzo molto più i commenti di Ulrich rispetto a quanto hai scritto sopra.

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      1. Ma figurati, mica era un commento aggressivo. Mi permetto di risultare provocatorio perché non sto chiaramente parlando con un balordo qualunque ma con qualcuno che, nel bene e nel male, ha un’idea di cinema. Fermo restando che la proposta di una scazzottata non è violenza, sennò dai ragione a chi ci ha privato del povero Louis Ck.
        Rilancio con un ultima cosa, poi ti lascio al tuo simpatico blog: il linguaggio cinematografico non è la tecnica, è l’insieme degli elementi autoriali che determinano il risultato di un’opera, che è il motivo per cui si decide di raccontare qualcosa attraverso un medium rispetto ad un altro. In questo caso il linguaggio diventa il tutto, ed è grado di comunicare attraverso l’insieme delle regole che definiscono il cinema, oltre che – ahimé – con la tecnica. Trovo offensivo che “l’altro” a cui tu ti riferisci implicitamente, e che probabilmente sono troppo limitato per comprendere, sia l’unico aspetto che persone come te prendono in considerazione nella valutazione di un’opera. Ah, e l’atto politico nel cinema, si concretizza SEMPRE attraverso il linguaggio, e questo è oggettivo. Come è oggettivo che Scorsese abbia fatto del CINEMA migliore di Diaz e Clipson e si debba imparare ad un certo punto a chiamare le cose con il proprio nome, ma se continuiamo questo discorso finiamo tra un paio di mesi.
        Daje, buon proseguimento.

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      2. Ma sì, posso capire il discorso che il linguaggio cinematografico di Scorsese sia superiore a Clipson, Brakhage e altri: per quanto comunque io non creda sia così, so che per la maggiore l’opinione condivisa sia la tua. Non é che io considero solo questo “altro”, ignorando che esista il resto: é che un film di Scorsese é un atto inutile, The act of seeing di Brakhage invece é un atto di cinema fondamentale. Magari non ha il linguaggio che dici tu, ma ha senso di esistere. Senza i film di Scorsese la mia vita va avanti tanto quanto prima.

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  6. Ce n’è di strada da fare, se questo è il pensiero comune. Ed evidentemente Franceschini avrà sempre più buon gioco. Mi fa tenerezza Ulrich che tira in ballo Kant e parla di un concreto materiale: come se Fabris fosse un idealista… può starci. E può starci che l’esempio di Clipson (ma perché parlare di Clipson? Torniamo in Italia: Cillo, Mazzola, Vallicelli, Fontana etc.) sia specifico, ma è specifico di una resistenza ulteriore. Il problema – mi pare – è che per quanto si voglia essere concreti, prendere il cinema com’è e dal lato più “consistente”, ci si dimentica delle leggi, che a quanto pare Ulrich non conosce. Leggi che legiferano il cinema in quanto impresa e non (più?) per il suo valore artistico e/o culturale, e questo è un punto che è necessario prendere in considerazione, altrimenti dal piano concreto su cui si pensa di parlare si scade nel vuoto della banalità infondata e sconclusionata, come del resto è banale e sconclusionato credere che le stellette siano un modo di diffusione dell’opera. La stessa legislazione italiana sul cinema ha prodotto, da un lato, quella cricca di registi/attori/- che tutti conosciamo e, dall’altra, ha lasciato fuori i registi, come ad esempio Redaelli ma non solo, dai sovvenzionamenti o comunque dalla possibilità di una diffusione che è quella che certi registi (non tutti, sia chiaro) si prospettano; in questo senso, il discorso che fa Ulrich a difesa dell’underground è tanto più buffo quanto più fa eco a quello stesso discorso che ha escluso l’underground e tenta in tutti i modi di ostruirgli il cammino distributivo – e spesse volte anche produttivo. Ma, ehi, l’innocenza con cui si parla di – e si fa – cinema oggi, con idee preconcette, senza un minimo di studio a monte e colla presunzione di star parlando del concreto, senza con ciò andare a studiarsi i d.lgs, gli statuti delle Mostre e via dicendo, è probabilmente proprio ciò contro cui muove una recensione simile, al di là dell’oggetto trattato, nonché il motore di una critica nuova, diversa – critica, a quanto pare, della critica stessa. Non tanto per essere distruttivi ma, semplicemente, per muovere domande (cosa banale: la recensione di Fabris ha più domande che affermazioni, e questa modestia non è moneta corrente tra i critici, oggigiorno) che dovrebbero, sperabilmente, portare a problematizzare proprio quegli assetti che mitridatizzano la possibilità di un cinema alternativo, com’è appunto quello di Redaelli. My 2 cents.

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  7. Lungi dall’essere un argomento ad hominem, ma l’unità di misura con la quale soppesare la serietà di questa pseudo-recensione (molto pseudo, dato che non spende mezza riga a proposito delle immagini stesse ma si perde unicamente sulle elucubrazioni presuntuose dello scrittore sulle appunto presunte intenzioni del regista) la fornisce già la maniera con cui è stata scritta.
    L’impressione che ci dà il “blogger”, già dalla prima dozzina di tutte queste non necessarie righe, è quella di uno che si sputa sulle mani per poi masturbarsi vigorosamente con pagine aperte a caso del dizionario italiano. L’unica motivazione per la quale uno “scrittore” potrebbe scegliere di utilizzare un vocabolario (nemmeno poi così ampio, se presa nota delle ripetizioni, a primo acchitto l’impressione data è quella di chi ha conosciuto ieri dei nuovi vocaboli ed oggi cerca di utilizzarli il più possibile) ed una sintassi tanto arzigogolati pur esprimendo concetti semplici e banali è il gretto autocompiacimento.
    È davvero facile immaginarselo intento a rileggere quel che ha appena scritto incensandosi e ripetendosi quanto è arguto e saggio nel buio della sua cameretta.
    Ciò detto, le conseguenti riflessioni che sovvengono sono principalmente due (evitando quelle psicanalitiche):
    – Tutta questa overdose di autocompiacimento è in netto contrasto con quanto viene da lui criticato parlando dei riconoscimenti intellettualoidi: è chiaramente uno che si aprirebbe le vene pur di dimostrare quanto è intelligente e superiore agli altri: tutti poveri omuncoli mentecatti e trasparenti dei quali lui legge le intenzioni, le vite, le motivazioni a colpo d’occhio. È proprio vero che ogni forma di critica in verità critica ciò che di nostro vediamo negli altri, anche laddove questo non è realmente presente.
    – Ad uno così è chiaro che non possa piacere nulla all’infuori della puzza dei propri stronzi. Il cinema o viene fatto, presentato, motivato, con le intenzioni che lui si ASPETTA di vedere dimostrate e come lui si aspetta di vedere dimostrate (tralasciando il discorso che potrei aprire sull’aspettativa, la quale parte sempre da noi stessi e mai dall’ esterno) oppure è cinema disonesto, traditore degli intenti da cui è scaturito, questo perché quel che il “blogger” sente tradite sono le sue aspettative (le quali sono unicamente affare suo).
    Attenzione: ho scritto “che lui si ASPETTA di vedere dimostrate e come lui si aspetta di vedere dimostrate” per sottolineare un punto cruciale: il fatto che lui non veda la purezza di intenti, l’onestà intellettuale, la coerenza del regista e dello staff non implica che questi non esistano, la dice lunga invece sulla sensibilità del “recensore” e su quanto questa sia appannata dalla sua massima, miserabile presunzione.
    Volevate la critica della critica? Ecco anche i miei due centesimi.
    Aspetto fiducioso ed impaziente di vedere un film vostro, anche girato dalla finestra della vostra stanza, così da non dover implicare in modo alcuno nessun sporco budget, nessun investitore ammazza-cinema, nessuna vile casa di produzione. Sarà sicuramente entusiasmante e pieno di suspance, colpi di scena e inquadrature incredibili. Peccato però che per restare coerenti con voi stessi farete in modo che nessuno ne parli (non sarà un compito arduo) quindi sarà difficile venirne a scoprire l’esistenza.
    È proprio vero che chi sa fare fa, chi non sa fare critica.

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  8. Ok, fermi tutti. Partiamo dalle basi. Questo film specifico nasce come tesi di scuola del cinema (senza scopo di lucro). È stato girato a costo zero (una Sony alfa sette presa a rate con una sovvenzione della scuola del cinema) e basta. È stato mostrato dopo una gestazione non brevissima e non semplice, come potete immaginare, ad una casa di produzione con cui avevo girato degli spot come aiuto regia (ebbene sì, per campare e per lavorare con il meglio in termini di squadre e di materiale, a Milano, c’è la pubblicità, mea culpa). Ci hanno fornito supporto in color (chiedendo un favore aggratis a un collaboratore) e hanno prodotto 2 dcp (2 perchè il primo non era buono) dal costo di 1200€ l’uno (spesa per noi impensabile se non a costo di notevoli sacrifici). Il film ha girato alcuni festival ed è stato rimbalzato da altri. Scopo: far vedere a qualcuno quello che si era raccontato (in assenza di distribuzione che altro metodo hai per vederlo proiettato su grande schermo?). Dopo un anno dal primo festival è stato proiettato in sala: 1 giorno a Torino, 3 a Firenze e doveva essere proiettato 3 giorni a Milano. A Milano la sala era piena: il film viene tenuto per un mesetto con proiezioni alle 11 del mattino, alle 13, alle 15, alle 19 alle 20 alle 22. La sala è sempre abbastanza piena. Gli incassi sono pubblici su mymovies: considera che il 60% è degli esercenti, dividi per 5 e vedi cosa resta. Non lo sapevamo già? L’abbiamo fatto per i soldi? Puó essere che inconsciamente l’idea di farci dei soldi mi abbia sfiorato. Ma vi assicuro che per mero calcolo matematico guadagno di piú in 2 giorni (2) di set pubblicitario. Perchè ho partecipato al progetto? Perchè volevo raccontare un mondo. Volevo raccontarlo nel modo in cui lo aveva visto Ale e me lo aveva presentato. Il kickstarter ha già spiegato molto bene Ale da che motivazione è mossa (il feticcio dell’oggetto è mercificazione? Forse, ma è anche memoria, ricordiamocelo. Per chiunque abbia lavorato anche solo 2 giorni in un archivio di una cineteca è un argomento non secondario) e che costi ha. Piú indipendenti libere e appassionate di così ho visto davvero poche produzioni, giuro, e qualcuna, nel mio piccolo l’ho vista in questi anni. Ció detto non ho nulla contro le critiche che ci vengono mosse, sono opinioni, e come tali, per me sono legittime e in parte stimolanti (specie per uno che ha sempre cercato di barcamenarsi tra etica, politica, pensiero collettivo e necessità individuali). Spero solo di aver reso un quadro un po’ piú sincero e onesto del film che abbiamo fatto, con i suoi difetti e i suoi piccoli-grandi pregi.
    Uno dei tre che ha partecipato al progetto. Hasta Luego.

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    1. Questo è un commento che apprezzo molto, perché è onesto e sintomatico di un coinvolgimento che, questo sì, è un atteggiamento che rispetto e che vale nell’idea di una produzione cinematografica. Quello che nei commenti precedenti non si è voluto capire è che il mio pezzo non voleva mettere in dubbio il fatto che il cinema comporti sacrifici, né affermare che tutti gli aspiranti registi debbano fare solo produzioni sperimentali a zero budget e che il denaro debba essere rigettato in toto altrimenti si passa automaticamente dai buoni ai cattivi, cerchiamo di capirci. C’è un’estremità da un lato e c’è l’estremità dall’altro, e quello che nel mio pezzo si voleva problematizzare (non criticare lanciando affermazioni scolpite nella roccia: solo problematizzare) era lo sconfinamento tra un’identità e l’altra. E’ evidente che non mi aspettassi che Funeralopolis non fosse costato soldi, soldi che manco io avrei, intendiamoci; mi capite che però il passaggio dall’avere un necessario finanziamento tecnico al mettere all’asta i propri feticci (hai usato il termine corretto) sia TROPPO ampio? E’ questo che mi fa perdere parte dell’interesse e della fiducia verso l’idea alla base di questo film, il sapere che si volesse raccontare, come giustamente hai detto, un ambiente ed una situazione periferica, sentita, lacerante, ma che lo si sia fatto con esigenze tecnico/pratiche esageratamente preponderanti. Mi spiego: hai detto che il cinema è anche memoria, ed in questo sono completamente d’accordo! Ma dunque perché mettere all’asta anche il primo, il maggiore oggetto di memoria di questa impresa (perché della vostra fatica e impegno non si discute, mettersi in gioco non è semplice), invece di conservarlo e, magari, utilizzarlo per altri progetti? Certo, una videocamera migliore può far la differenza, ma quello che mi preme molto far capire, ovvero il mio punto di vista, è che non sia una videocamera migliore a contribuire ad un film migliore, ma solo ed unicamente le intenzioni, con qualsiasi telecamera si abbia a disposizione. In più: quella telecamera, che giustamente dici essere oggetto di memoria personale, in mano a qualcuno di estraneo certamente perderà tale accezione affettiva, era proprio necessario dunque giungere fino a questo punto? Poi, naturalmente, liberi tutti di prendere le decisioni che più si preferiscono: dalla mia posizione io solamente problematizzo una situazione/una scelta che non ho condiviso, avendola trovata eccessivamente distante dalle immagini radicali e incendiarie del film. Detto questo, ti ringrazio Daniele per aver fatto il commento più costruttivo tra le parti che, in effetti, io stesso ho chiamato in causa: ti auguro fortuna, quali che siano le scelte che si faranno.

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