Qualche mese fa, tra Marzo e Aprile, ho avuto l’occcasione (ed il piacere) di incontrare e frequentare le persone che hanno eretto la realtà più fervida ed essenziale di quello che dovrebbe rappresentare oggi lo scrivere di Cinema e, soprattutto, il pensare il Cinema. L’Emergere del Possibile ha di fatto aperto, già da diverso tempo, un discorso a sé stante (non tanto per assunto isolazionismo, quanto piuttosto per la palese evidenza della più totale mancanza di qualcuno anche solo in grado di presenziare in un discorso tale) riguardo al Cinema e alla necessità dell’effettivo discuterne, volto ad una politica dell’immagine prima che ad una sua estetica; ed è solo questo che, oggi, giustifica il parlare di Cinema, il parlarne in quanto atto di resistenza in un contesto, a dirla tutta, putrescente, per quello che riguarda la generalizzata concezzione di Cinema odierna. Sta di fatto che da quegli incontri (di Cinema realmente vivo, forse; lo si legga alla luce anche dei temi di condivisione e contatto che troverete qui di seguito) è nata l’idea della chiacchierata che potete trovare in originale naturalmente sul blog dell’EdP, al seguente link – http://emergeredelpossibile.blogspot.com/2018/06/sacramenti-5-immagini-di-confine.html – e che ho riportato anche qui su Immagini di Confine, un po’ per comodità e un po’ per dar testimonianza di quanto l’EdP ed i suoi creatori mi siano cari a livello personale e siano stati il necessario svelamento per chiarirmi in nome di cosa oggi abbia ancora senso parlare di Cinema.
Un carteggio (virtuale) tra Emergere del Possibile e Immagini di Confine
L’emergere del possibile: Ciao, innanzitutto grazie per la possibilità; è la prima volta che chiacchieriamo con chi scrive di cinema, ma è altrettanto vero che, in Italia ma non solo, è piuttosto difficile trovare gente che scriva di cinema con una certa urgenza, non meno che sia aperta al dialogo e non arroccata sulla propria persona. Al contrario, la tua realtà – prima facie, lontana dalla nostra – ci sembra scaturire da una stringenza che va al di là della singola recensione, nel senso che non si esaurisce nel singolo scritto né nella loro somma, pur palpitando al fondo della stessa, a mo’ di causa efficiente. In questo senso, innanzitutto, siamo curiosi di sapere da cosa nasce quest’esigenza – la tua, appunto – di scrivere, e di scrivere di cinema in particolar modo. Perché la scrittura? e perché proprio intorno al cinema? Inoltre, uno dei due elementi ha una qualche priorità sull’altro?
Immagini di confine: Vi ringrazio per la chiacchierata, e nel farlo sostanzialmente dispiego buona parte della mia risposta al vostro quesito, peraltro fondamentale quantomeno nel panorama che giustamente avete sottolineato. Il Cinema è sempre stato, per me, fondamentalmente un pertugio individuale verso dinamiche di riflessione e di conoscenza, un biglietto aperto verso la possibilità di sondare quello che quotidianamente passa in secondo piano. Il trionfo del presente, del fattuale, del momentaneo sollievo dato dal sotterramento della propria capacità di guardare (mi) portano ad abbandonare il contesto di condivisione del quotidiano, se non altro per quanto riguarda questi aspetti, diciamo, personali. Per me la trascendenza dell’ipotesi, della possibilità, della domanda oltre la cortina accomodante del già noto è sempre stata di un’urgenza intrascurabile, ma sostanzialmente (salvo per poche, care, persone) un fatto circoscritto alla sfera, appunto, del personale. Tutto questo va bene finché il personale non basta più, ed è dunque sorta la necessità della comunità/della comunicazione. Scrivere per me è questo, è pensare di parlare con qualcuno che sente la medesima urgenza. Scrivere di Cinema è il (necessario) corollario, dal momento che le immagini proliferano come mai prima d’ora e si appiattiscono potenzialmente sempre di più verso quella banalità dilagante che mi ostino a disconoscere. Se è il Cinema, dunque, a formarmi, è lo scrivere ciò che fornisce una parvenza statutaria alle mie intenzioni: senza la condivisione me ne starei lì ancora davanti allo schermo, individuo tra gli individui. Poi ci possono essere mille relazioni diverse con la materia filmica, e qui fate bene a sottolineare che probabilmente disponiamo di approcci diversi, in questo io mi sento ancora molto più spettatore che critico. Tuttavia, la scrittura (e la divulgazione) ampliano la vista, forzando peraltro anche chi sta dall’altra parte a farlo: leggere di cinema è sicuramente più impegnativo che guardarlo, e questo è senza dubbio un motivo addizionale verso la mia (nostra) scelta di scrivere. Senza dimenticare le faccende pragmatiche: per dirla con Raya Martin, «Garbage is forever, but the memory is very fragile».
EdP: Interessante quello che dici a proposito della solitudine e della stringenza di una comunità, più o meno inconfessabile che essa sia. In effetti, anche a noi pare che, molto spesso, la scrittura scaturisca come necessario corollario di una comunità, molto spesso una casta: è la scrittura dei quotidiani, delle riviste; viceversa, ciò che mi sembra muovere alcune scritture, come ad esempio la tua, è appunto il fatto che questa comunità sia un fine cui tendere, più o meno asintoticamente: se già c’è, è un virtuale, che la scrittura attualizza, e comunque solo parzialmente. Qui, come dicevamo, dei punti di contatto tra l’EdP e IdC, pochi ma che sono comunque fondamentali; e di qui, peraltro, una differenza specifica tra la tua scrittura, come spero anche la nostra, e quelle che si trovano nei quotidiani, nelle riviste, non solo cartacee: l’una è inclusiva, perché rivolta potenzialmente a tutti, incontro aperto, nonché condizione di possibilità di un incontro, l’altra invece sostanzialmente esclusiva. In questo senso, l’atto della scrittura potrebbe, secondo te, essere eliso o, comunque, scambiato con un altro atto? Pensiamo ad esempio a quanto continua a dire Aprà sui critofilm: bisogna parlare di cinema attraverso il cinema. La scrittura va mollata, perché non è dello stesso materiale di cui parla. (Un po’ come dire che bisogna fare critica d’arte con l’arte: se critico una statua, devo fare un’altra statua, con buona pace dell’argomento del terzo uomo.) Ma anche Rossin non dice qualcosa di molto diverso: non si deve far critica attraverso la scrittura, ma attraverso il lavoro di curatore/programmatore. Mentre tu, come noi, continui a scrivere. Trovi quindi che ci sia un’irriducibilità della scrittura, che né il lavoro del programmatore né il critofilm riescono a salvaguardare e che, anzi, debba essere in ogni caso tenuta presente? e, se sì, qual è questa irriducibilità, non meno che la sua differenza tra il lavoro del programmatore e il critofilm?
IdC: Per quanto mi riguarda, non posso essere più in disaccordo con una suggestione del genere. O meglio: la scrittura non deve essere necessariamente il mezzo privilegiato per la critica, perché anche l’audiovideo che pensa all’audiovideo può dimostrarsi potenzialmente produttivo, tanto quanto la scrittura: si tratta solo di considerarne la generazione, il contesto di nascita. Aprà, nella sua indicazione del cosiddetto critofilm, fa riferimento a tutto un insieme di produzioni che (lo si deve ricordare!) nascono commissionate dalla televisione, in sostanza sono un’appendice dell’istituzione. Nasce dunque una questione (quantomeno per me) vitale, ossia: come è possibile parlare di cinema (ossia creare uno spazio aperto di discussione) in seno all’istituzione? Il cinema per essere vivo deve essere anarchico (e a maggior ragione, quindi, il parlarne!), ma quando è l’Istituto Luce a commissionare il critofilm di Aprà su Bertolucci, o si è curatore della determinata mostra sponsorizzata dal Comune o dalla Regione, è possibile realmente aprire un discorso sul cinema? Del critofilm di Aprà si deve condannare non tanto la sufficienza critica, bensì la pretesa della necessità e sufficienza, perché a quel punto l’anarchia della discussione lascia il posto alla gerarchia autoriferita della generazione. E a quel punto io non faccio film per pensare il cinema, ma faccio film per gingillarmi nell’affermazione del mio generare (e del poterlo fare) elevando il mio discorso sul cinema ad un livello autoritario che poi è la piaga peggiore del cinema stesso. Autocelebrazione: esattamente come la malizia di certo cinema anche sperimentale che non fa cinema per se stesso, ma per poter collegare il proprio nome alla stucchevole condizione dell’aver fatto cinema (d’elite, per di più: senti quanto riempie la bocca). Cosa peraltro infame, dal momento che il cinema che vive realmente è quello che rifugge l’istituzione o un ipotetico statuto di affermazione di supremazia generativa; è quello che crea spontaneamente (anche per nessuno). Ecco, probabilmente la risposta è questa: la (nostra: EdP, IdC) scrittura è scrittura verso tutti, ma generata per nessuno, senza alcuna pretesa: il critofilm è film verso nessuno, generato per (ammaliare) tutti. Che poi è anche il motivo per cui io (IdC) mi prendo la libertà di scrivere di cinema pur non studiandolo: siamo una voce nel cerchio che vogliamo creare, non l’uomo che dirige il discorso da un piedistallo.
EdP: Un appunto in merito all’osservazione sul critofilm e la commissione delle televisioni: tutto giusto, però c’è da considerare una prospettiva che, per quanto opinabile possa essere, problematizza ulteriormente la questione. Siamo infatti del parere che il tuo punto di vista sia corretto, ma c’è da domandarsi come si è prodotta questa congiuntura, in particolar modo rispetto ad Aprà. E ci ricolleghiamo al fatto della critica così come ne dicevi, cioè quale scrittura afasica. Di contro, la critica pedagogica, quella di Aprà ma non solo, nasce, come giustamente noti, in seno alla televisione. Che è, come giustamente ricorda Bellour, un nemico intimo o un’amica esterna del cinema. C’è da considerare, però, che questo nasce cinematograficamente o, meglio, grazie a un regista: Rossellini. L’ultima pedagogia di Rossellini, il suo rapporto coll’apparecchio televisivo crediamo sia un dato storico importante da prendere in considerazione. Non è un caso che Bruno Torri organizzi ancora tavole rotonde su di lui e che Aprà vada in trasferta e sia invitato a parlare di Rossellini, peraltro (cosa curiosa, ma non inspiegabile se si conosce l’ambiente del Fronteira e, in generale, il pensiero e le pratiche iberiche) dopo l’intervento di Broomer sul film sperimentale; inoltre, ma non ci dilunghiamo a questo riguardo, Rossellini è stato anche il regista di Andreotti, per dirla così, quindi c’è tutto un retroscena politico, in cui anche si contestualizza la Mostra di Pesaro, da prendere in considerazione. Però non vogliamo parlare di questo, perché non è la sede. Piuttosto, questo era per dire quanto segue, ovvero: che ne è, allora, della ricerca? e, soprattutto, quando si scrive di cinema, c’è da chiedersi, preliminarmente o in corso d’opera, «in nome di quale immagine?»? nel senso, non è forse la critica stessa o, insomma, questa tua, che speriamo sia anche nostra, scrittura un modo per porre la domanda? Almeno, questo evinciamo dalla risposta, ma è anche ciò che, almeno per noi, fa funzionare i pezzi su IdC, che funzionano appunto non perché descrivano il film ma perché nell’atto stesso di scriverne trovino le condizioni per porre la domanda che attesta il terreno comune tra cinema e scrittura: «in nome di quale immagine sto scrivendo?», «in nome di quale immagine viene realizzato questo film?». Viceversa, ed è questa, a nostro avviso, la debolezza della tesi di Aprà, un film che ponga rispetto a un altro film la domanda la sta facendo di fatto retroagire su di sé, rimandando indifferentemente e in maniera asintotica ad un’immagine-oggetto, un’origine da cui possa possibile dire o fare delle immagini: ma ciò in un regressus in infinitum. Interrogarsi allora a proposito non tanto di cosa si stia scrivendo ma in nome di cosa significa porsi la stessa domanda che si è posto il regista o, insomma, colui il quale ha fatto il film o, nel caso di Brakhage e di altri registi sperimentali, si è espropriato di sé attraverso il film, ma non in definitiva per esso, tant’è che la filmografia di Brakhage è sterminata. Diciamo Brakhage, ma è lo stesso per Mazzola – è evidente. Ma, se ci si interroga su questo e si fa di quest’interrogazione una pratica – la scrittura afasica di cui parlavi, ad esempio – non è lo stesso drammatizzare il fatto di essere presi all’interno di un’istituzione che, quell’immagine, la restituisce, se non anche la crea? Più importante ancora, c’è davvero una possibilità che, scrivendo, si riesca a determinare quel qualcosa che sfugge alla presa istituzionale o, se esiste, della molarità di un io, di un soggetto surcodificante? o è proprio la pratica stessa della scrittura a farlo uscire? In maniera molto banale: d’accordo, la scrittura è verso tutti, ma generata per nessuno, ma, detto onestamente, c’è ancora – e da che deriva – la speranza che, nonostante l’inverno nucleare, ci sia ancora qualcuno là fuori?
IdC: Avete scoperchiato il cuore dell’intera questione, prima ancora che di questa nostra stessa chiacchierata. Dico che siamo arrivati al cuore della questione ma, alternativamente, potrei tranquillamente dire che siamo ci siamo chiusi in labirinto affascinante, ma da cui (quantomeno io) potrei ancora non essere in grado di sfuggire. Voi ponete i giusti problemi: e già nel solo dare una risposta scritta alla materia sospesa e nebulosa che avete giustamente liberato, si può percepire che lo scrivere abbia ancora un senso. Perché qui si parla di Cinema, e probabilmente nel modo più sincero e più stringente; eppure non si parla di film, e credo con questo di dimostrare quanto d’accordo io sia con voi nell’individuare nella domanda «in nome di quale immagine sto scrivendo?» il cardine del dover (ancora) scrivere di Cinema. Ovverosia: tra un suggerimento e una obiezione, tra una supposizione e un’evidenza, tra noi (e mi riferisco anche a chi legge) in questo momento stiamo facendo un massaggio cardiaco al microcosmo-Cinema, pur non toccando alcun film, alcuna materia definita e riverenziata, alcun autore, alcuna sequenza di immagini. Si parla delle implicazioni, delle motivazioni, del completamento extrafilmico del Cinema, ed è questo il motivo che vi (spero si possa dire lo stesso anche per me) spinge a scrivere, il corollario dello schermo. Perché, come dite in modo sacrosanto, troppo spesso la concezione del Cinema è limitata al film, alla sua meccanica descrizione, alla discussione circoscritta al paesaggio limitante che il film crea e che, accettandolo, ci rende in un qualche modo incatenati ad osservarne le ombre platoniane. Ciò che ancora può salvare e che, anzi, giustifica l’atto di scrivere di Cinema è proprio lo spostamento del punto focale del discorso dal film in sé all’indagine, per l’appunto, di cosa sia la cosa in nome della quale l’immagine del film è stata concepita: in nome di cosa? Chiunque oggi può fare film, ed allora il punto diventa automaticamente «Perchè fare un altro film?», e la risposta sarebbe per molti impossibile, mentre qualcuno risponderebbe che è per fare Cinema, più che film. Si sono spesi fiumi di parole intorno ai film (e qui, ancora una volta, si torna ai critofilm – addirittura film per parlare di film! –, a Bertolucci e alla politica, alle rassegne retrospettive…), scriverne ancora (ossia scrivere di qualcosa che si conclude con l’osservazione di un contenuto audiovideo) non solo è anacronistico: è proprio una paraculata. Quindi torniamo alla domanda: c’è ancora qualcuno là fuori? la scrittura libera dalle autoreferenze che circuiscono l’immagine? Credo che in questo momento e con questa discussione stiamo generando (o quantomeno provandoci) una dose di entropia sufficiente per permettere che il Cinema viva ancora un po’. Qualcuno là fuori ci sarà: basta guardare voi che ancora vi sbattete per organizzare qualcosa che dia ancora senso al vedere, scrivere e (soprattutto) riunirsi intorno al Cinema, creare qualcosa che abbia senso di r\esistere; oltre il film e oltre la gravitazionalità dell’io che, tristemente, individuate con piena ragione.
EdP: Un’ultima domanda. Tu un tempo scrivevi dopo la tenebra. Il cinema era allora post tenebras, in pratica una (nuova) alba dorata. Ora invece hai spostato l’attenzione al confine: l’immagine di confine sarebbe dunque l’immagine che sta tra la luce e il buio, che si dichiara e (si) produce (nel)l’interstizio, che è peraltro, stando a Deleuze, dove si produce il pensiero, tra il già-pensato e l’impensato: l’immagine è allora una terza via rispetto a una sintassi dualistica, a una grammatica che permette solo i dualismi. Citi Platone, le sue ombre; e giustamente, o almeno noi siamo d’accordo con te, ammetti che l’immagine, producendosi nell’interstizio, essendo per definizione «di confine», sia tra il visibile e l’invisibile, intendendo con ciò quell’εἶδος, quel «come dovrebbe essere» che è la sua stessa idealità, comunque differita e differente. Quindi è fuori dalla coppia Idea-copia. L’immagine sarebbe quindi dell’ordine della dissomiglianza, che è il suo atto: pensiamo ai videogrammi di Farocki/Ujică, ma anche e nondimeno ai paperi di Rincione. In questo senso, scrivere di questo confine, non significa abitarlo? e, abitarlo, continuare quel gesto del dissomigliare e del far dissomigliare che è proprio dell’immagine? In maniera più piana, stando a quanto ti dici, non è possibile avere un’immagine della rivoluzione senza che quest’ultima si sia spenta o abbia abdicato alla propria danza in vece di una marcia militaresca oppure senza che la prima assuma su di sé il ritmo di quella danza, facendosi di per sé rivoluzionaria. Ma questa immagine rivoluzionaria, l’incandescenza di un’immagine che sia radicalmente «di confine», non implica, per definizione, una sua dispersione? e non è questa dispersione ciò che, in ultima e definitiva istanza, la scrittura deve preservare e verecondere, anche a scapito della visione? Meglio, se il confine si dà sempre tra due stati o comunque due molarità, (1) sono questi a produrre quello o quello a determinare questi, e (2) il confine produce l’immagine o l’immagine produce un confine? e, soprattutto, come? Ne va, appunto, della legittimazione dello status quo, contro il quale, stando a quanto hai detto finora, ma anche scritto nel tuo, pare si faccia l’immagine – e che questa anzi non abbia quasi altro senso che questo «contro», questa dissomiglianza come traccia, traiettoria di una terza via.
IdC: Credo che il passaggio tra i due punti focali che fate notare (da un cinema «post tenebras» all’immagine di confine) sia andato di pari passo a una sostanziale variazione (o traslazione, la si chiami come si vuole) di approccio non tanto nei confronti del Cinema, quanto piuttosto nei confronti del fatto di parlarne. Ci sono ancora molti (moltissimi, invero) esempi cinematografici che mi hanno formato e a cui sono inevitabilmente riconoscente, per svariati motivi, ma su cui ora non spenderei una parola, su cui non vedrei più il senso di scrivere una riga. In questo senso, è cambiato non tanto il Cinema, quanto piuttosto la mia concezione del significato della scrittura: che poi è quella alla base dei Videograms che ricordate anche voi, ossia riferirsi all’immagine implicandone una sua necessità, esponendone l’urgenza e le implicazioni all’interno di un panorama film-centrico, come si diceva anche in precedenza, in cui spendere parole non ha più alcun senso politico se non per svincolarsene. Che poi l’esperienza dopo le tenebre si sia rivelata, più che un’alba dorata, un’Alba Dorata con lettere capitali è altra storia, da cui imparare. L’interesse per quella che giustamente individuate come l’immagine interstiziale sarebbe sorto né più né meno, appunto, per riconoscere un antagonismo ideale al solido (e solito) autoaffermarsi della sola contrapposizione tra ciò che è evidente e ciò che, evidentemente, non è. Per quanto mi riguarda, scrivere del confine non coincide con l’abitarlo quanto piuttosto con il procedere nella sua ricerca: ne si testa l’esistenza procedendo, effettivamente, per differenza, ed è la domanda di base (che poi è la vostra di prima: fare Cinema per cosa? e, soprattutto, verso chi?) che rimarca che la soglia, il confine, è di per sé una realtà fluente e metamorfica di cui non interessa tanto il trovarla quanto il vederci attraverso. Ne deriva che, è vero, l’immagine di una rivoluzione si dà al suo spegnersi a meno che non si faccia essa stessa necessaria per la rivoluzione, ma spero di rendere esplicito che qui non si sia alla ricerca dell’individuazione di un confine, e della risposta a se questo esista dal momento che esiste una contrapposizione e una separazione, o viceversa una omologazione o un collasso centripeto, né se il confine sia l’immagine di un’immagine contrapposta; non è scrivendone che la libertà della rivoluzione verrà messa in discussione, lo è invece la necessità dell’atto radicale. Lungi da me, dunque, l’indicare l’immagine o il confine come qualcosa di relegato alla conoscenza e quindi amputato ad una stasi cancerosa; l’immagine deve rompere un dualismo, non venirne assoggettata, sicché si prova solo a vedere grazie ad essa, non a vederla essa stessa.