The House (Šarūnas Bartas, 1997)

Madre. Madre, spesso avrei voluto parlare con te di tutto, ma non l’ho mai fatto. Ma dentro di me, io parlavo con te. Potevo sentirlo, e sentire le tue risposte. Ma ogni volta che vengo qui ad ascoltarti, non posso più parlare con te. Rimango in silenzio. Tutte le parole sono state dette. Dette internamente. E tutte le mie domande, tu hai risposto ad esse, dentro di me. Prima è sempre accaduto questo. Quando eravamo distanti. Distanti l’uno dall’altra. Ecco com’era prima. Come è stato, e mai più potrà accadere. Non importa quanto io lo voglia. Il futuro. Nel futuro io sono libero. Libero, perché ancora non esiste. Non comprendo il presente. Il presente è così sfuggente che non sono certo che esista. –

Una grande villa di campagna, e la spora pulsante del (non) vivere dentro. Un giovane parla con la madre. Una madre che non può più incontrare, se non nel limbo sospeso di sé stesso. E lì, confessarsi, indagarsi, comprendersi, accettarsi. È materia indefinibile ed eterea questo The house (1997), ostica e meravigliosa summa poetica del capostipite del cinema baltico, Sarunas Bartas. Il lituano, in questa nebulosa e spettrale (perché densa di fantasmi) pellicola, scardina la concezione di cinema iperrealista e radicalmente attingente dalla realtà esistenziale che lo aveva caratterizzato fino a quel momento (ed anche in seguito), per arditamente completarne i risvolti ed umanamente astrarne una comprensione. Siamo di fronte alla dimensione dell’impossibile, o meglio – in un paradigma contemplativo parallelo a quello storico – del completamente possibile in quanto ancora futuro rielaborante di un passato insondabile ed incompreso. Nella casa il giovane si imbatte in fantasmi solitari e silenti, specchio confuso ma lapidario del passato, della vita e della sua elaborazione. La desolazione e l’abbandono, ed il risveglio del giovane dal suo torpore. Il confronto con l’esistenza, il suo potere incenerante e tuttavia ancora fecondo: tutto è marcescente, ma le giovani bambine ancora crescono libere e candide, miracoli naturali che non si curano del dopo tanto quanto il prodigio ribelle della fioritura in soffitta. D’altra parte l’essenza del già corrotto si esprime staticamente e perentoriamente nelle rielaborazioni del giovane, che fornisce voce ed occhio all’incontenibile questione ontologica del maestro lituano, vibrante e spasmodica nella sofferta invocazione che apre l’opera. Fin dal concepimento della propria esperienza artistica, la concezione esistenzialista ed essenziale dell’opera del lituano Sarunas Bartas si è sempre elevata al di sopra della fattualità per indagare e raggiungere (o, più semplicemente, constatare) la sagoma evanescente del tempo, della sconfitta e della stasi. Cinema rarefatto e soggiogato alla singolarità, quello del lituano diviene proprio per questo cinema sociale e destrutturante nell’insuperabile a(teo)gonia dei suoi protagonisti, che arrancano solitari e silenziosi nel freddo ripetersi del tempo e della Storia. Non c’è riguardo né deferenza da parte dell’occhio penetrante di Bartas nei confronti di una nazione, la Lituania, lasciata agonizzante ed ectoplasmatica dopo la dissoluzione funeraria della Madre Russia del 1990-91. Anzi, il cinema del maestro lituano sembra sorgere proprio per testimoniare l’inizio (il proseguimento) della morte del paese baltico, simbionte dell’Unione Sovietica ed incapace/impossibilitato a vivere: così come (da sempre) i personaggi vinti e sommersi delle sue opere. Basti pensare alla ibernante e retrograda (anti)socialità ottusa ed abietta di A memory of the day passed by (1990), che si riunisce al suono delle campane per dipendere da qualcosa di fumoso ed incomprensibile (la Russia, la religione) e che osserva un burattinaio che imbocca dei gesti al suo fantoccio, prima di lasciarlo immobile e impotente nella neve. O alla squallida e slavata esistenza dei ragazzi di Three Days (1991): constatare il nulla dell’esistenza non può che portare alla consapevolezza ed al dolore e, mentre gli echi di una fetida festa rimbombano dalla finestra, l’unica possibilità è l’accettazione della propria pochezza. Persino la fuga dalla palude risucchiante del baltico non porta a nulla, o meglio, (ri)porta al nulla: anche nei luoghi dimenticati da Dio la natura (umana) è spietata (Few of us, 1995) ed immota (Freedom, 2000). The House elabora tutto questo, lo sublima e lo trasporta sulla dimensione più sfuggente ed insondabile della percezione umana, l’ultimo spauracchio prima del definitivo distacco dal reale, nonché strumento per la sua stessa rielaborazione ed accettazione: il ricordo, il sogno, il simbolo. The House, come tutto il cinema di Bartas – prima di una inaspettata involuzione artistica coincisa con Indigène d’Eurasie (2010) – (non) parla della vita e della (im)possibilità della sua comprensione, e questa volta lo fa attraverso l’evocazione psicomagica di immagini, contrasti, essenze e pulsioni che instaurano un collegamento tra realtà e ricordo, per giungere ad una reciproca compenetrazione e trasfigurazione. Il tempo si avvolge ed i fantasmi della memoria vivono insieme al giovane una condizione di metamorfica sospensione, oscillanti tra infinita purezza ed incontrastabile contaminazione. La casa diventa sfondo e recipiente dell’ancora possibile, ed è possibile osservare, specialmente confrontando l’opera con il precedente The corridor (1994), una speranza (o meglio, una maturità ed una consapevolezza) assenti nel resto dei lavori del regista: quella della resistenza e della liberazione. Se in The corridor questa coincideva con il catartico ballo che smuove il silenzio ed il torpore sconfitto dell’esistenza, in The house viene assunta la forma dello svincolamento dal reale e dal suo vuoto annichilente per giungere ad un’estrema dimensione di pura potenzialità in cui ancora si spera, ancora si vive ed ancora si può parlare con la propria Madre, sapendosi finalmente immortali e trasfigurati. La realtà muore, assediata con armi da fuoco e crocifissa nel corpo di un bambino. Ma la metamorfosi è completa e finalmente maturata, l’essenza cambia forma ed osserva dietro di sé grazie anche al Cinema stesso: per elaborarsi e, seppur parallelamente alla Storia, sovrastarsi.

Madre. Il tempo è passato. E  sono distante da te. Ciò che è importante, Madre, per me, è credere che queste cose non svaniranno. Le nostre canzoni, i nostri sguardi, i nostri minuti, noi due. Per noi non sono altro che anime morte. Anime malate, sfinite, semplicemente questo. E soprattutto, quasi prive di speranza. Ma non stiamo per sparire. Se solo potessi dirti quanto io fortemente creda in tutto questo, Madre.

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